La traduzione in un artista: una questione neurologica

“To be, or not to be, that is the question” ( W. Shakespeare. Amleto atto 3 scena I) “Essere… o non essere. È il problema.” (Eugenio Montale Traduzione dell’Amleto di William Shakespeare Atto 3 Scena I ) Per comprendere il nostro punto di arrivo basterebbe analizzare il lavoro di traduzione di uno dei versi più famosi di Shakespeare fatto da Montale. Il poeta italiano nel suo lavoro di traduzione rispetta il compito di restituire alle parole italiane lo stesso valore semantico della lingua originale. Rispetta la tradizione nel restituire alla frase lo stesso significato voluto da Shakespeare che si presta a più di una interpretazione. È nel tradimento, però, che il lavoro di Montale acquista efficacia. L’Amleto è del 1603, la traduzione di Montale ha una prima versione per la scena del 1943, ma viene pubblicata in maniera definitiva nel 1949. Fra l’opera e la traduzione presa in esame ci sono trecentoquaranta anni di differenza. In quasi tre secoli e mezzo si sono susseguite varie traduzioni, molte, specie quelle relative al XIX secolo, piene di toscanismi. Montale sa bene che il teatro è scritto per essere detto, parrlato; sa che la lingua appartiene al proprio tempo: non al passato, non al futuro. È già un poeta affermato (il suo Ossi di seppia è del 1925), fa delle scelte che tradiscono il testo originale, ma rendono la sua traduzione più efficace e, soprattutto, la rendono sua. Prima di tutto agisce sulla punteggiatura: toglie delle virgole, aggiunge dei punti sospensivi, mette un punto; si prende la libertà di togliere nella traduzione la parola “that”. Il suo tradimento dall’originale dà vita, molto probabilmente, alla più bella traduzione in italiano dell’Amleto di Shakespeare che esista. Soprattutto dà vita, appunto, alla traduzione di Eugenio Montale. Il lavoro di traduzione di Montale, però, è un semplice lavoro di traduzione il cui compito è quello di restituire riportandole in italiano le atmosfere che un autore, in questo caso Shakespeare, ha scritto in un’altra lingua. Cosa succede. però, quando un artista, nel caso specifico un regista, decide di mettere in scena un testo? Per rispondere a questa domanda bisogna fare una lunga premessa. La traduzione, la tradizione ed il tradimento sono parte integrante di ogni procedimento artistico. Nel lavoro del regista questo processo è quasi obbligato e si attua, a volte inconsapevolmente, durante tutto il processo che dalla lettura del testo porta alla realizzazione della messa in scena, dal tradurre, cioè, in azione e in immagini, ciò che legge. Ogni artista è un mondo a sé. In occidente non esistono, se non in rare eccezioni che andrebbero analizzate a parte, artisti collettivi tanto è vero che essi vengono definiti dal proprio nome e cognome. Può sembrare una banalità, ma il nome e il cognome definiscono i confini di un mondo che non appartiene ad altri se non a chi possiede quel nome e cognome. Ma cos’è questo mondo e, soprattutto, perché è un mondo? Il corpo ha dei limiti spaziali che vengono riconosciuti dagli occhi degli altri, dallo sguardo di chi guarda. Gli occhi definiscono una persona, attribuiscono ad essa delle qualità. Una persona può essere bassa, alta, magra, grassa, atletica, flaccida, invalida. Un nome, un cognome, un aspetto fisico definiscono una persona rispetto agli occhi di chi guarda, anche se chi guarda si riflette nello specchio. Se ci limitassimo a definire una persona solo attraverso elementi visibili potremmo definirci come si definisce una pianta, un animale, un oggetto, non ci sarebbero differenze, se non nella forma e nel nome le nostre differenze sarebbero date dal genere e dalle differenze morfologiche. Così come in natura esistono le querce, i pioppi, i pini noi saremmo solo uomini, donne, grassi, magri, giovani, vecchi. In questo caso non saremmo un mondo. Ben altra cosa è quella di definire una persona attraverso il suo mondo interiore. In questo caso la persona diventa un individuo, con una propria personalità e non può essere altro da sé. Definire un individuo attraverso la propria personalità diventa complicato, perché ogni individuo è un mondo a sé. In questo passaggio il finito diventa infinito, l’infinito è dato dal mondo interiore che appartiene ad ognuno, dalle emozioni che ognuno prova e che sono parte integrante ed inscindibile di ogni individuo. Non ci vuole molto per dimostrare ciò, senza ricorrere a Giordano Bruno o ad altri filosofi, basta che ognuno faccia un semplice esercizio: chiuda gli occhi ed immagini uno spazio infinito: il mare, il mare ed il cielo, il mare la terra ed il cielo. Se ognuno è in grado di immaginarlo, vuol dire che ognuno è infinito, ognuno contiene l’infinito (Questa osservazione obbliga chi scrive ad una digressione che nulla c’entra con la natura dell’articolo, ma che si rende necessaria visto i tempi che viviamo, visto le guerre che ci circondano: spesso nessuno pensa che uccidere un uomo voglia dire mettere fine al suo infinito, al suo mondo, la pace, proprio per evitare ciò, dovrebbe essere una necessità inderogabile dell’uomo.). Oltre alla propria immaginazione l’infinito di ogni individuo è dato dalla propria individuale elaborazione della realtà, dei ricordi che si hanno, dalle inevitabili emozioni che esse creano all’interno della propria anima. La scienza odierna ha dimostrato come in ogni individuo convivano tre intelligenze primarie: – intelligenza razionale; – intelligenza creativa; – intelligenza emotiva. Rispetto a ciò ogni lettura per un individuo è di per sé un lavoro di traduzione che passa attraverso le forme di intelligenza primarie già citate: – Attraverso l’intelligenza razionale l’individuo analizza e memorizza il significato delle parole; – attraverso l’intelligenza creativa l’individuo attribuisce delle immagini alle parole che legge e attribuisce alla lettura una realtà immaginaria; – attraverso l’intelligenza emotiva l’individuo vive le parole che legge, immedesimandosi nei personaggi. Ridendo, piangendo, soffrendo con loro. Il combinato del lavoro contemporaneo delle tre intelligenze primarie fa sì che ogni lettura diventi unica per ogni individuo. La stessa lettura è, quindi, tradotta da ognuno in modo diverso. “Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito”. (Gabriel Garcia Marquez, Cent’anni di solitudine, Ed. Oscar Mondadori- 1988 incipit) In modo empirico è molto facile dimostrare quanto si sta dicendo, basterebbe invitare ogni lettore a restituire attraverso un disegno l’immagine che Marquez crea: il plotone di esecuzione, le “venti case di argilla e di canna selvatica (…)” che compongono Macondo. Ogni lettore ne restituirà un’immagine diversa, ognuno avrà la propria Macondo. La lettura dà vita ad una traduzione neurologica che va ben oltre il coinvolgimento della sola intelligenza razionale. Uguale in tutti è solo il valore semantico che viene decriptato come somma di significati. come somma di informazioni, grazie a quest’ultimo tipo di intelligenza, tutto il resto cambia da individuo ad individuo. Il corpo traduce ciò che legge. Questo rispetto alle proprie conoscenze, ai propri ricordi sia intellettivi che emotivi. Si legge traducendo le parole in immagini ed in emozioni. Il linguaggio che si crea grazie all’immaginario e alle emozioni, ha in comune con tutti gli archetipi, ma ognuno vive la lettura come un’esperienza personale, simile non uguale a quella di un altro diverso da sé. Tutto ciò implica molte cose, la prima e, forse, più importante di tutte è che un’opera letta e tradotta dal corpo diventa a sua volta un’opera unica, non replicabile. Nell’era digitale che stiamo vivendo sarebbe bello e nello stesso tempo estremamente tragico riuscire a replicare attraverso il metaverso i “mondi” che le letture creano in ognuno. Ogni opera letta potrebbe avere un’infinità di versioni, ognuna diversa dall’altra: magari simile, ma mai uguale. L’opera tradotta dal corpo non è replicabile ed è la prima tappa del lavoro artistico. Quanto detto è uno dei motivi per i quali nei nostri corsi di teatro e nei nostri corsi online di scrittura teatrale, di sceneggiatura, di scrittura creativa e nei nostri corsi di regia teatrale ribadiamo sempre il principio che il testo non dia mai vita a una “forma artistica fissa”, ma è sempre un pretesto e/o un pre-testo utile a creare in chi legge o in chi è chiamato a mettere in scena, e/o tradurre in immagini una sceneggiatura, fascinazioni che dipendono imprescindibilmente dall’esperienza individuale di ognuno. Su questi punti torneremo nei prossimi articoli…

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *