Nel rapporto tra pedagogo teatrale e discente in un corso teatrale è sempre più difficile far capire il concetto di immedesimazione in un personaggio. Il metodo Stanislavskij, a più di un secolo dalla sua teorizzazione, non ha perso efficacia, né ragione d’essere, ma, forse, paga dazio ad una terminologia desueta, probabilmente consunta, che finisce per confondere colui, o colei, che lavora a far vivere in scena persone vere nate, sulla carta, dalla mente di un autore.
Viviamo in un secolo ricco di immagini audiovisive, dove tutto quello che si cerca si trova con un click. Questo per la ricerca attoriale è il primo limite perché offre paragoni che non dovrebbero essere visionati se non a lavoro terminato, non in corso d’opera. Siamo essere emulativi, la tentazione di imitare scelte altrui solo perché, magari, esse hanno funzionato in quel contesto va evitata.
Sembra strano, ma “l’immedesimarsi in un personaggio” fa subito nascere nell’attore l’idea di cercare un “altro da sé“, mentre si dovrebbe cercare sempre un “altro in sé“. Non è una differenza da poco, ma sostanziale. Cercare un “altro da sé” vuol dire permettere al proprio immaginario di lavorare alla creazione di una persona che non conservi le proprie caratteristiche fisiche, vocali, interiori. Cercare un “altro in sé” vuol dire lavorare nel proprio immaginario a dar vita ad un proprio multiplo che conservi le proprie caratteristiche fisiche, le proprie potenzialità vocali, le proprie basi emotive-psicologiche.
Nella nostra vita quotidiana, quando parliamo, le nostre parole sono sempre la stazione terminale di un moto interiore; se così non fosse le stesse parole risulterebbero vuote, non creerebbero una comunicazione. La comunicazione fra persone è creata dai moti interiori che rendono vivo ciò che si dice, non da altro. Seguendo questo principio le battute di un testo teatrale sono semplicemente i pensieri di persone che parlano a se stessi o tra di loro, a questi pensieri va creato un “mood emotivo” che ha radice nella stessa personalità di chi è chiamato a dar vita a queste parole.
Nei nostri corsi, pur sapendo di non proporre niente di nuovo, ma, anzi, di sviluppare percorsi di consolidata tradizione, chiediamo ai nostri allievi di lavorare alla creazione di una “sincerità artistica“, che nasce da se stessi, ma diventa “altro in sé“. Consideriamo l’immaginario di ogni corsista come una grande tela sulla quale ognuno è chiamato a restituire la propria verità; verità data dalle parole del testo che si è chiamati a far vivere. In fondo lo stesso lavoro che il Caravaggio fa con la sua “Natura morta” dove i frutti sulla tela sembrano più veri di quelli reali…